Tre decenni di solidarietà: la storia di “Aiutiamoli a vivere”

Un impegno senza confini: dall'accoglienza dei bambini di Chernobyl al sostegno dei piccoli ucraini e palestinesi

In oltre tre decenni, la Fondazione Aiutiamoli a Vivere ha segnato la storia della solidarietà internazionale in Italia, portando nel Paese oltre 600.000 bambini dall’area di Chernobyl e preparandosi ora ad accogliere mille bambini ucraini nelle proprie strutture. Quest’ultimo progetto vedrà i piccoli ospiti rimanere in Italia per circa sei mesi, come ha rivelato all’ANSA il presidente della Fondazione, Fabrizio Pacifici.

Pacifici, figura storica del Partito Comunista Italiano e un tempo assessore comunale, ha fondato l’organizzazione nel 1991 insieme a padre Vincenzo Bella. La decisione di dedicare la sua vita ai più piccoli nasce dalla convinzione che “soltanto i bambini ci salveranno”, una credenza maturata visitando un ospedale vicino alla centrale nucleare di Chernobyl e toccando con mano le conseguenze della tragedia.

Nonostante le iniziali difficoltà, comprese le porte chiuse dal suo mondo politico e il suo essere allora ateo, Pacifici trovò sostegno in un frate dell’Ordine dei Minori Conventuali, dando vita a quello che sarebbe diventato un movimento di solidarietà globale, trasformatosi in Ong nel 2010.

La Fondazione può oggi contare su 250 sedi sparse per l’Italia e uffici di rappresentanza in Bielorussia, Ucraina, Congo e Giappone. Il supporto viene da diecimila famiglie italiane pronte ad accogliere i bambini e partecipare alle iniziative solidali. Recentemente, Pacifici ha guidato una missione a Kiev, portando aiuti alimentari e materiali a militari e bambini, e gettando le basi per progetti futuri, tra cui la riabilitazione di un ospedale ucraino e l’introduzione della telemedicina.

La Fondazione Aiutiamoli a Vivere non si limita al supporto dei bambini ucraini. Un nuovo progetto vedrà l’organizzazione impegnata a Betlemme, dove, con il contributo del governo giapponese, verrà realizzato un reparto pediatrico per i bambini palestinesi, arricchito dalla tecnologia del “cubo” per la telemedicina, a dimostrazione dell’impegno continuo e della versatilità dell’organizzazione nel rispondere alle emergenze umanitarie.

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